Il delitto Cuocolo, processo alla camorra

Molto spesso il popolino napoletano, e non solo esso, restava ammaliato da vicende criminose, seguivano l’andamento delle varie fasi giudiziarie, traendo da esse poesie e canzoni. Dalla vicenda che narreremo fu ricavato anche un film diretto dalla mitica Elvira Notari. I titoli delle canzoni e delle poesie in vernacolo, collegati all’avvenimento descritto sono: ’O chianto d’’e povere ggente, causato a Viterbo d’’a mala vita napulitana; il poeta popolare Ferdinando Mugnano adattò i suoi versi da cantarsi, com’era d’uso all’epoca, su un noto motivo, in questo caso la canzone di riferimento fu A San Francisco del duo Diodato Del Gaizo-Alberto Montagna. Più interessante fu un’ironica composizione poetica di Alfonso Mangione, firmata con lo pseudonimo di Alman e pubblicata nel 1911. Ritorniamo ai fatti. All’alba del 6 giugno 1906, in cupa Calastro a Torre del Greco venne ritrovato il corpo di Gennaro Cuocolo, un basista della camorra esperto in furti. Aveva la testa massacrata da colpi di bastone e sul suo corpo vennero contate almeno 50 coltellate. A Napoli qualche ora più tardi in un appartamento di via Nardones venne rinvenuto anche il corpo senza vita di Maria Cutinelli, moglie di Cuocolo, uccisa con 13 coltellate. I due formavano una coppia criminale specializzata in furti di appartamento; svolgevano il ruolo di basisti per i compagni camorristi fornendo loro informazioni e calchi di serrature di case signorili. La scoperta dei due cadaveri aprì uno dei casi più intriganti del secolo scorso: il primo processo-spettacolo alla camorra. Il 22 ottobre 1907 la Camera di Consiglio si riunì a Castelcapuano per il rinvio a giudizio degli imputati. Il 27 marzo 1909 il sostituto procuratore generale Michele Ciancaglini rinviò a giudizio presso la Corte d’Assise di Napoli 47 imputati. Il processo non si tenne a Napoli: ci sarebbero stati troppi ostacoli e tentativi di corruzione; venne trasferito per legittima suspicione alla Corte d’Assise di Viterbo. Iniziato nel 1911, il procedimento durò fino al luglio 1912. Il processo Cuocolo, seguito con grande attenzione dai giornali e dall’opinione pubblica, si chiuse con la condanna a 354 anni di reclusione complessivi di tutti gli imputati. Due persone in particolare Giovanni Rapi e Enrico Alfano vennero condannate a trent’anni di carcere. Un altro, tale Gennaro Abbatemaggio, a cinque anni. Abbatemaggio detto ‘O cucchiariello in quel processo ebbe un ruolo chiave; ventottenne e già pregiudicato, era stato cocchiere. Era accusato di associazione a delinquere. Quel processo fece emergere complicità con la politica e in particolare con l’Amministrazione comunale partenopea. Le indagini effettuate ricostruirono i fatti a partire dalla sera antecedente i due delitti; il crimine venne deciso ad un pranzo consumato da una comitiva di camorristi in una trattoria vicino al luogo del delitto Mimì a mmare; la compagnia era composta da Enrico Alfano, detto Erricone, considerato vero capintesta della camorra, suo fratello Ciro, Giovanni Rapi, maestro elementare e usuraio, da Gennaro Ibello e Gennaro Jacovitti, questi ultimi manovalanza della camorra. Il camorrista Erricone era originario del quartiere Vasto; la sua attività ufficiale era quella di commerciante di crusca: si era arricchito speculando sulle aste dei prodotti dedicati al settore ippico favorito da connivenze altolocate. Fu anche, attraverso aderenze militari e politiche, fornitore ufficiale di muli all’Esercito italiano, proprio nel periodo di maggior crisi amministrativa e politica a Napoli dall’Unità d’Italia in poi. Alfano aveva fatto eleggere un’altra persona al suo posto come capo riconosciuto della camorra: il capintesta Luigi Fucci. Vennero tutti arrestati; dopo un mese e mezzo di indagini condotte dalla questura però arrivarono ad un punto morto, così i sospettati vennero rilasciati e il caso passò al comando dei Carabinieri. L’inchiesta fu affidata al capitano Carlo Fabbroni che non risparmiò accuse di corruzione e d’inefficienza alla polizia napoletana. Abbatemaggio venne sempre controllato da una squadra speciale dei Carabinieri, organizzata dal Capitano Fabbroni, denominata “Cosacchi”. Detenuto a Santa Maria Capua Vetere, fu contattato dal maresciallo Capezzuti, avendo i Carbinieri individuato in lui la persona che avrebbe potuto aiutarli a mettere sotto processo il gotha della camorra napoletana. Abbatemaggio si prestò immediatamente ad inventare tutto e il contrario di tutto, a dire tutte le cose che i Carabinieri gli ordinavano, venne addirittura stipendiato e pagate le parcelle degli avvocati e persino scarcerato. Abbatemaggio fu dunque il primo “pentito” della storia della camorra; scomparve nei primi anni ’60. Viste le modalità con cui si svolse l’omicidio, le indagini furono subito indirizzate verso la pista camorrista. Il delitto era da ricercare nel mondo della cosiddetta malavita elegante dove alcuni ladri erano entrati in conflitto tra loro probabilmente per la spartizione della refurtiva di una precedente rapina con omicidio. Altra ipotesi fatta era la volontà della camorra di tenere sotto controllo il settore dei furti in appartamento nelle zone borghesi di S. Ferdinando. Il tribunale della camorra avrebbe perciò decretato la condanna a morte del basista che avrebbe tradito un compagno di furti, tale Luigi Arena, macchiandosi di ‘nfamità, la peggiore delle accuse. I Carabinieri produssero atti per «un maxiprocesso impostato secondo un rigido paradigma associativo e con marcate forzature probatorie, le quali non soltanto alimentarono forti campagne di stampa attivate dalla difesa e dall’opinione garantista, ma provocarono un serio conflitto interistituzionale, che dalla polizia giudiziaria si allargò alla magistratura (1908), e diede dunque una chiara coloritura politica al processo». Infine nel 1920 i 47 camorristi, vennero giudicati e condannati, ma furono tutti amnistiati. Nel 1926, dopo quindici anni, il colpo di scena: Gennaro Abbatemaggio ritratta tutte le accuse, ma il caso non viene riaperto.